Il romanzo-canto che profetizza il nostro smarrimento
di Simone Innocenti – Toscana Oggi – 10 Agosto 2025
C’è un romanzo che è un canto. E un libro snello e profetico, feroce nella sua delicatezza. Si intitola La linea dell`orizzonte, lo ha pubblicato Medhelan (pagine 150, euro 16) e lo ha scritto Christos Vakalopoulos, forse una delle figure più complesse della cultura greca: regista, critico cinematografico e scrittore. Morto nel 1994, all`età di soli 37 anni: nella sua terra aveva pubblicato questo volume appena tre anni prima e gli amici – intellettuali marxisti come lui – lo avevano accolto con diffidenza e supponenza. Il perché è presto detto. C`è un romanzo che è un canto, dicevo. È un canto di una voce antica perché tale si fa nel raccontare la storia di Rea Franzì, trentadue anni, bruna, sposata e separata da tre giorni, fragile, contraddittoria, timida, impaurita, forte, vestita leggera e che «in questo momento è assente, se volete lasciate un messaggio» perché lei se ne è appena andata, ha scelto di uscire dal delirio di Atene e di prendere un traghetto. Nessuna isola alla moda, non Santorini, non gli aperitivi e il sesso facile. Ma Patmos, «l`unico luogo al mondo dove a mezzanotte si ferma la musica», il posto dove aan Giovanni ha scritto l`Apocalisse. Perché l`Apocalisse – nella sua vita è arrivata già: lei stessa l`ha costruita assieme ai giovani e alle giovani della sua generazione. Quale la
spiega Petros Markaris nella prefazione al libro: è «(…) il percorso della Grecia dalla realtà della sua epoca verso un`altra Grecia, dove a dominare è il “sedicente” che plasma una sedicente realtà». La banalità di oggi, il piattume, il ciarpame del consumismo, una musica che non è più musica, un turismo becero, l`assenza del sacro. In questo romanzo, tradotto da Francesco Colafemmina, non succede nulla perché tutto ormai è successo, il mondo va avanti delirando sotto il vessillo del progresso, questa «tecnologia che produce la solitudine dell`uomo» per dirla con le parole di Sandor Marai. E Rea Franzì – invece – si sottrae a questa Apocalisse sbagliata per andare incontro alla sua, in un`isola assatanata di turisti che lei scansa perché loro «sono in pace con se stessi, conoscono il giusto. Se non conosci il giusto non puoi andare da nessuna parte, il giusto è la cosa più naturale del mondo. È giusto essere naturali, specie d`estratte. È giusto essere abbronzati» e sono molto diversi da quelli che «pensavano che fosse giusto qualcos`altro che non si dice facilmente». Ma che invece non sono così diversi dalle sue amiche, da chi fa di tutto «per far diventare la propria vita una pubblicità». Lei si è lasciata tre giorni prima dal marito, che ha conosciuto a Venezia quando era più giovane: lo ha fatto anche perché è ancora innamorata di un greco che ha conosciuto quando era in Svizzera, a fine percorso del liceo, nel 1971. Era entrato in camera sua, per tutta la notte l`aveva guardata, non era successo nulla perché a quell`epoca «i greci erano ancora timidi» e «sapevano vergognarsi». «Essere greci – fino a qualche anno fa – voleva dire essere cristiani ortodossi», mi ha spiegato una volta Nicola Crocetti, uno dei pochi editori di poesia in Italia che ha tradotto i migliori poeti ellenici. E una frase che ho tenuto a mente nel leggere questo romanzo e per capire la portata di un gesto, quello che fa Rea, di fronte a una chiesa «messa sul ciglio del crepaccio»: si fa timidamente il segno della croce, poi entra e accende un cero consapevole che «si allontanerà dalla vita reale». Perché quella che tutti vivono come tale – ripensa ora Rea – è quella che le ha descritto una sua amica che si chiama Vana e che «tornò dalla Francia e disse che lì c`è la vita reale, fumi, bevi un caffe, entri in un negozio, compri qualcosa, bevi un caffe, fumi, entri in un cinema, fumi, mangi, entri in un negozio, fumi, entri in un caffe, giochi a flipper, fumi, entri in un negozio, compri qualcosa, è questa la vita reale». In un`epoca come la nostra – dove sui social rimbalzano continuamente fotografie di cibo, alcool, spiagge e altro – suona profetico quello che l`autore scrive e che Rea vive. Perché la «gente bionda», quella che balla sempre e soltanto sulle note di una musica sottomessa, ha scordato oppure non sa che «esisteva una musica illecita, tribolata, insopportabilmente reale. Guardava negli occhi il dolore, non lo esiliava come faceva la radio, lo lasciava scorrere e lo mandava lì dove per un istante smetteva di essere dolore e diventava qualcos`altro, qualcosa di molto strano». La loro Apocalisse è il nulla, quella di Rea è la comprensione. Perché «esistono uomini di altre epoche, passate e future, sparsi per tutto il mondo» e che sono tutti quelli che «non ce l`hanno fatto a diventare fotografie». Nell`epoca dei social ma soprattutto nell`epoca di chi utilizza questi social – questa frase segna il distacco tra chi continuamente posta i propri scatti in mare, al tramonto, al nulla. Essere in Grecia o in un altro posto è uguale. Andare in un posto è lo stesso perché tanto «sono gli stessi, esattamente gli stessi, sono venuti qui per rimanere uguale a se stessi». Il punto è che «un tempo questo viaggio era accompagnato da fiumi di sangue e ora scendono dalla cattedrale galleggiante per una visita al monastero visitatori indifferenti con borse della stessa foggia. Sono più pericolosi dei crociati perché non sanno quello che fanno, non sono consapevoli di essere un esercito senza capi che non è destinato a fermarsi prima di lanciare lo stesso indifferente sguardo persino sull`ultimo pezzetto del mondo veramente civilizzato, di quel mondo che fa finta di non essere civilizzato, di quel mondo che si è stancato di essere civilizzato. Sono più pericolosi dei crociati perché non si soddisfano con niente, non hanno nessun obiettivo, il mondo è stato fotografato migliaia di volte ma loro insistono senza sapere perché lo fanno, vengono a ondate e non si rilassano mai, gli è passata per testa l`idea che se scatti fotografie invece di versare sangue, si allontanerà una volta per tutte la rovina, ma sono fuori strada perché la catastrofe è più vicina che mai e nessuno spesso strato di immagini è destinato a scongiurarla”. Perché le persone “nel giro degli ultimi venti anni erano riusciti a voltarsi con gran disinvoltura dall`altra parte, era questa la più grande conquista dell`umanità, le relazioni libere, il rispetto della personalità, l`uguaglianza dei due sessi, lo dicevano tutte le riviste, lo urlavano a gran voce le analisi accademiche, lo sostenevano a gran voce i manifestanti per le strade, lo suggerivano le canzoni, lo si vedeva nei film, lo scrivevano nei libri, dargli le spalle, darle le spalle, avere entrambi un impegno al mattino. Nel giro degli ultimi venti anni tutti si trovarono ad avere un impegno (…) e sei libera di accettare tutte le prove ritenendole improvvise benedizioni che non vengono da nessuna parte, inviate dall`Inter io del caso, ereditate dal nulla». E invece se «il mondo cambia appena scrivi la prima parola», Rea non può fare altro che cercare la linea dell`orizzonte perché, come recita l`esergo scelto dallo scrittore greco che cita san Giovanni Climaco, «quando avrai accolto la fiamma, corri: infatti non sai quando si spegnerà e ti lascerà nell`oscurità». Corri o nuota. Lentamente.
La linea dell’orizzonte
Bruna, trentadue anni, vestita leggera, Rea Franzì è la protagonista della Linea dell’orizzonte, romanzo e insieme riflessione profetica sulla perdita delle identità. Quelle degli individui prigionieri dell’eterno presente, e quella dei luoghi, come le isole greche invase d’estate da orde di «gente bionda». Ambientato a Patmos, icona della lotta al turismo di massa, dove a mezzanotte «la musica finisce» è la storia di una fuga e di una ricerca. Pasoliniano e nostalgico, sognante e luminoso, il romanzo di Vakalopoulos racconta a nuove e vecchie generazioni il dramma dell’omologazione e della disgregazione sociale. Lo fa con una prosa folgorante, quasi la sceneggiatura di un film, inseguendo Rea fra le spiagge dell’isola dell’Apocalisse. Petros Markaris la definisce nella sua prefazione alla presente edizione «un’opera profetica, che prevede dove sarebbe andata a finire la Grecia nel primo quarto del XXI secolo». Quello di Vakalopoulos, infatti, non è solo un romanzo, ma una guida alla ricerca di un’immagine, un nuovo inizio, un ritorno a se stessi e alle proprie radici. Fra chiesette incastonate sul ciglio di una scogliera, evocazioni dell’imperatore Alessio Comneno, difensore dell’eternità contro i Franchi avidi di presente autori del sacco di Costantinopoli durante la Quarta Crociata, spiagge frequentate da «uomini di altre epoche, passate e future» e altre invase da turisti che non sanno dove si trovano, ma seguono la corrente, Vakalopoulos aiuta il lettore scoprire che la vera fuga è un ritorno. Un ritorno ai ritmi del villaggio, alla comunità, all’autentica musica che sgorga dall’anima del popolo, alla dimensione dello spirito che la Linea dell’orizzonte, quella che unisce l’azzurro del cielo al blu dell’Egeo, lascia intravvedere quale risposta di verità e libertà.
Prefazione di Petros Markaris
Traduzione e postfazione di Francesco Colafemmina
Pagine: 160
Recensioni:
Toscana Oggi – Simone Innocenti
Mow Magazine – Riccardo Canaletti
