Nella sconfitta si celano le ragioni per cui combattere
di Mario Bernardi Guardi – Libero – 7 Novembre 2024
«Ho un debole per le cause perse, soprattutto quando sono perse davvero», sentenzia il disincantato Rhett Butler in Via col vento. Ed è un sigillo memorabile: sconfitto nella guerra civile americana, il Sud di Rossella `O Hara non perde il suo onore anche perché un cinico dongiovanni sceglie la bandiera dei vinti. Pensi ai sudisti travolti dalla storia. E ti viene in mente anche Sparta, dura e pura nella sua stagione di gloria, ma con un amaro destino. Bisogna vedere fino a che punto è “amaro” e fino a che punto la sconfitta decreta davvero “una fine” o, non piuttosto, “un fine”. Con le sue ragioni paradossali. Come ben intendeva, nel 1969, lo scrittore francese Maurice Bardèche intrecciando, oltre i millenni, le due storie esemplari (“Sparta e i sudisti”, Ed. It. Ar, 2013 ). Ma a dar il significato più esatto e più empatico di questa visione del mondo è il Giappone. Qui varca il tempo in modo straordinario – dai samurai ai kamikaze – una filosofia dell`uomo, della vita e della morte, che mette in crisi ogni modello di razionalità, affermando la dismisura come norma e obbiettivo. A raccontare questa idea inaudita di eroismo e di pienezza è lo scrittore inglese Ivan Morris, in un libro affascinante che mette insieme documenti storici, itinerari spirituali ed epos leggendario, tra splendori imperiali e guerrieri (La nobiltà della sconfitta, prefazione di Marcello Ghilardi, Medhelan, pp.500, euro 28). Esemplare una frase del viceammiragilio Onishi: «Anche se saremo sconfitti, la nobiltà di spirito del corpo d`attacco kamikaze solleverà la nostra patria dallo sfacelo». Andavano a morire i kamikaze in quel monoplano monoposto che il bombardiere Mitsubishi portava in prossimità dell`obbiettivo a una grande altezza per poterlo sganciare a velocità fantastica e farlo esplodere contro la nave nemica. Non è in base alla vittoria finale che la cultura giapponese li celebra ma è in forza di un “riconoscimento: la loro è un`impresa a cui ci si dedica “totalmente”, corpo e spirito. E lo schianto dei kamikazecome il suicidio rituale dello scrittore Yukio Mishima nel 1970 è un atto di assoluta libertà. Si muore perché si ” deve “morire. Perché è così che “si vive”. Qui siamo agli “estre- mi” del pensiero e della volontà sacrificale in un`aura mistica che associa l`immagine del guerriero a quella del fiore di ciliegio: questo per pochi giorni è un trionfo di colore e poi appassisce, quello vive intensamente la sua gloria combattendo contro il nemico, ma è costantemente esposto alla morte. Lo sa, è la sua scelta. E la sconfitta non gli toglie nulla, anzi accresce il suo onore e la sua nobiltà. Comunque, se è l`Oriente nipponico a meglio rappresentare e motivare la figura dell`eroe sconfitto così come si accorda ai ritmi dell`universo, gli scenari della storia e della cultura da sempre sono aperti all`epica del sacrificio. Pensiamo ai Trecento Spartani che nel 490 a.C. muoiono dal primo all`ultimo insieme al Re Leonida opponendo fiera resistenza ai Persiani al passo delle Termopili. I nostri libri delle elementari li immortalavano al pari dei Trecento di Carlo Pisacane, i “giovani e forti”, cantati dalla “Spigolatrice” di Luigi Mercantini. Trecento patrioti che trovarono la morte a Sapri dove erano sbarcati, tentando invano di far insorgere la popolazione contro i Borboni. I quali nell`animo meridionale- “volimmo `o Re”- trovavano radici affettive, così come le celebra Carlo Alianello nel suo “Alfiere”, uscito nel 1943 (lo si veda nelle Edizioni Rizzoli del 2011). Un romanzo dal singolare destino: molti combattenti sul fronte della guerra civile se lo portavano nel tascapane, quasi come un amuleto. Ammirando nell`alfiere borbonico Pino Lancia, che lotta fino all`ultimo per il Re e le Due Sicilie, il modello di un eroe che ha scelto una “parte” – quella degli sconfitti- e a lei consacra se stesso. Variamente declinata, la “nobiltà della sconfitta” è l`ostinazione dei vinti a non darsi per vinti. E se questa non è una vittoria, poco ci manca.
La nobiltà della sconfitta
Ivan Morris, nella sua opera più famosa, dedicata a Yukio Mishima, tratteggia alcune esemplari figure di “nobili sconfitti” della storia giapponese, a partire dall’epoca antica degli eroi divinizzati, per finire con la storia del Novecento e l’esperienza dei kamikaze. Come chiarisce il filosofo Marcello Ghilardi, autore della prefazione a questa nuova edizione: «Il libro di Ivan Morris racconta come sia proprio il fallimento mondano, in rapporto a un’impresa a cui ci si dedica con la totalità della propria esistenza, a far emergere l’autenticità e la lealtà a un ideale. Quella che Morris definisce “nobiltà della sconfitta” si rivela come un’idea inaudita di eroismo e di pienezza».
Prefazione di Marcello Ghilardi
Traduzione di Francesca Wagner
Pagine: 504
